Mazzanti e l’apprendimento motorio (2 di 3): la teoria del sentire, conoscere e riconoscere e i miei pensieri a riguardo

by 17 Jul 2020Pensieri sull'allenamento

Mazzanti ha parlato della sua teoria dell’apprendimento più volte durante il lockdown. Ho già commentato la prima parte del video che Mazzanti ha registrato per CambiodiCampo in questo articolo spiegando perché il tutto mi sembra un po’ confuso e non in linea con la letteratura scientifica disponibile. Qui commmento la seconda.

Abbiamo trovato 4 famiglie, 4 tipi di intervento per riuscire a conoscere meglio, a percepirsi meglio, e quindi cerco di portarlo fuori da lì, fargli sentire quella cosa, ma 3 o 4 ripetizioni in cui li si percepisce e poi lo ributtiamo dentro a sentire quel gesto nell’azione di gioco, quindi passa da riconoscere un gesto a conoscerlo meglio a riconoscersi capace di poterlo fare, quindi è conosci e riconosci, dove posso rimbalzare, perché se lui non riesce a riconoscerlo devo aiutarlo a conoscere meglio il gesto per poi ributtarlo dentro e poi l’ultima fase è quando passo da riconosci a utilizza, non ti dico più niente, vai nel gioco e io ti dico qual è il transfer, cosa gli è rimasto di tutto quello che abbiam fatto.

https://youtu.be/TekRy_3ax3o?t=144

Qui vengono utilizzate 2 parole, “conosci” e “riconosci” che nella letteratura specifica dell’apprendimento motorio non figurano affatto. Cosa significano? E invece cosa significa sentire? Quali sono le domande da fare o le istruzioni da fornire per fare conoscere e riconoscere? Quali sono le risposte dell’atleta che mi fanno capire che sta facendo i giusti processi? Come mai nella fase “utilizza” è il tecnico che dice qual è il transfer? Che fine ha fatto a questo punto il “riconosci” dell’atleta?

In realtà in altri interventi Mazzanti ha fatto riferimento per l’utilizzo di queste parole al “ciclo di Kolb”. Ma a parte quelle che possono essere eventuali critiche nel merito, siccome nessun autore importante (almeno non di primissima schiera) ha richiamato il lavoro di Kolb in riferimento all’apprendimento motorio, nè tantomeno ha richiamato questa nomenclatura (e le relative categorizzazioni ovviamente) andrebbe spiegato esattamente cosa significa “conoscere” e “riconoscere” nell’ambito dell’apprendimento motorio.

Quando io ti porto fuori, non posso scomporre quella casa, posso solo farti vedere come sta su quella casa, come può reggere meglio quella casa, quindi quando io sono fuori dal contesto di gioco non sto stabilizzando niente

https://youtu.be/TekRy_3ax3o?t=276

Qui, francamente proprio non capisco. Quello che posso dire è che ci sono abbastanza studi in letteratura che suggeriscono che si possono stabilizzare gesti anche fuori dal contesto di gioco. Altra cosa è quanto transfer possano poi avere sulle abilità in gara, forse il Ct intendeva questo. Qualche parola in più lo merita il concetto di stabilizzazione. In sport di situazione, nel quale il contesto è per definizione estremamente variabile, sembra che durante il percorso di acquisizione e perfezionamento delle abilità motorie la variabilità del gesto aumenti, non diminuisca. Ciò che si stabilizza cioè è il risultato ma non il movimento (Button et al. 2003; Ranganathan e Newell 2010). Lo diceva già Bernstein: “ripetizione senza ripetizione“. La parola chiave è adattabilità, che vuol dire saper essere stabili quando serve e flessibili quando serve.

il lavoro analitico serve a percepire, non a stabilizzare. Per questo motivo se io devo percepire non devo starci lì 2 ore ma devo fare poche ripetizioni […] il lavoro analitico è solo un momento di percezione di quel che ti serve

https://youtu.be/TekRy_3ax3o?t=295

Ancora bisogna cercare di capire cosa significhi la parola percepire. Visto che l’essere umano non sembra sia in grado di non percepire probabilmente il riferimento è al percepire qualcosa di diverso. Ma cosa? Ha a che fare con il processo di dove mettere l’attenzione? In questo caso sembra la ricerca possa essere di qualche feedback interno, e qui andremmo contro una vasta letteratura scientifica che suggerisce come feedback o istruzioni che veicolino l’attenzione verso l’interno disturbino l’automatismo dei gesti tecnici impoverendo la prestazione (Wulf 2013)

Riguardo al numero di ripetizioni è vero, la ripetizione fa la differenza, però deve essere una ripetizione positiva, una ripetizione che è andata a buon fine, e buon fine significa non solo il fatto che uno abbia fatto la cosa giusta, ma anche che l’abbia vissuta nel modo giusto, perché se la vive con ansia non la va a ripescare poi con la stessa rapidità […] visto che ogni memoria è legata comunque all’emozione con cui l’abbiamo vissuta e salvata, poi il modo in cui l’abbiamo salvata è il modo in cui l’andiamo a riprendere quando conta, quindi questa cosa qui fa tantissimo la differenza

https://youtu.be/TekRy_3ax3o?t=743

Qui l’ipotesi di Mazzanti è interessante e suggestiva. Ma va sottolineato che è soltanto un’ipotesi. Che secondo me non è nemmeno molto attendibile. Credo che qui Mazzanti faccia confusione tra contesto di apprendimento e apprendimento di un singolo gesto. Cioè mi sembra più probabile che le emozioni negative possano influenzare negativamente un contesto di apprendimento piuttosto che un singolo gesto. Cioè si è visto che può accadere che per paura legata appunto al contesto sia più difficile che l’atleta sperimenti movimenti fuori dalla sua zona di comfort, dalla sua zona stabile. Ed è questa mancata uscita dalla zona di comfort che impedisce la creazione di nuove connessioni e quindi di apprendimento. Ma credo che anche se un’atleta sta vivendo un lavoro tecnico con frustrazione perché non gli riesce qualcosa, o con tensione dovuto al “clima in palestra”, nel momento in cui questa cosa gli riesce la frustrazione e la tensione se ne possano andare sostituite dall’emozione della soddisfazione per il compimento del gesto desiderato. E credo sia alla fine questa l’emozione che rimane associata, meno la frustrazione o la tensione.

Questa parte del video è molto complessa e articolata. Mazzanti tende a fare dei grandi mischioni nelle argomentazioni con salti logici molto arditi. Per questo le affermazioni vanno confutate una alla volta altrimenti non ci si capisce nulla. Quindi mi riferisco al video da qui in avanti:

https://youtu.be/TekRy_3ax3o?t=809

a volte tu vai a ripetere un gesto e quel gesto è diventato razionale su come va fatto e a volte se uno fa diventare quella cosa troppo razionale

Capisco l’esigenza di esprimere in modo semplice, ma un gesto non ha la possibilità di essere o meno razionale. Forse intende che un gesto passa sotto il controllo di parti del cervello razionali, o meglio ancora maggiormente consapevoli. E poi cosa vuol dire “far diventare quella cosa troppo razionale”? Cioè cosa è quel troppo? Quanto razionale deve essere il controllo di un gesto o cosa deve essere controllato razionalmente perché vada bene?

cioè per fare quella cosa io devo ASSOLUTAMENTE io vado in controllo, molto spesso rompo la fluidità del gesto,

Razionale (“consapevole”) sembra sia legato al fatto che uno voglia farlo “assolutamente”. Forse quell’assolutamente ha a che fare con l’aumento di pressione, di aspettativa sul risultato. Qui si tenderebbe ad andare su forme di apprendimento implicito, cioè sul cercare di “non andare in controllo esplicito”, perché troppa consapevolezza rompe la fluidità del gesto. Ma allora come la mettiamo con “conosci” e “riconosci”?

quindi a volte, come si dice nel libro “The Inner Game” noi dobbiamo far tacere quella parte razionale e quindi molto spesso dare un compito cognitivo, che non c’entra nulla con quella situazione è il modo migliore per far venire fuori quel gesto in maniera fluida

Questo espediente è noto in letteratura come dual task, ed è uno stratagemma metodologico per portare a forme di apprendimento implicito (Gabbett e Masters 2011)

Io stavo pensando che ci sono alcuni fondamentali nella pallavolo in cui riesco a fare questo cioè riesco a portarmi fuori da quella situazione cioè riesco ad aiutarli a non razionalizzare troppo quel gesto perché ho alcune strategie che funzionano quando invece c’è tantissimo collegamento, tipo che ne so l’attacco dove il loro gesto dipende sempre […] da tanti aspetti situazionali lo so anche io che quel gesto andrà male, ho la sua stessa percezione che quel gesto non andrà a buon fine e sto lì a ripetere qualcosa che non andrà a buon fine […] Secondo me ci sono delle cose in cui per cambiarle cè bisogno del sentimento giusto o meglio, o meglio io mi rendo conto che ci sono i punti di forza che ok sono i punti di forza poi ci sono le aree di miglioramento che molto spesso vengono vissute come problemi e quando uno ha quell’area lì la vive male, la vive con il sentimento sbagliato, la vive come un senso di colpa nel senso che mi dicono di fare questo e io faccio questo, il differenziale tra quello che mi viene chiesto e quello che io riesco a fare è il senso di colpa e finché questa cosa non si trasforma in senso di resposabilità, ossia cosa posso fare io per la squadra su quel fondamentale, non quello che mi viene chiesto ma cosa posso fare io e quella è la responsabilità, praticamente se io sono un grandissimo attaccante non mi possono chiedere di essere un grandissimo difensore, ma posso fare la mia parte in difesa secondo quelle che sono le mie caratteristiche che non sono quelle lì di essere uguale al miglior difensoreo

Qui cambiamo discorso. Non parliamo più di apprendimento motorio. Adesso parliamo di gestione della squadra e di efficacia di squadra come sistema. E di limiti e caratteristiche individuali di ciascun giocatore. Su alcune affermazioni viprego di porre grande attenzione perché possono essere fuorvianti. Per esempio la frase sul grandissimo attaccante e il grandissimo difensore rischia di confluire nella cultura degli alibi. Da dove viene la convinzione assoluta che un grandissimo attaccante non possa essere anche un grandissimo difensore? Secondo me anche il discorso “bisogna evitare che lo viva come un problema” è rischioso in questo senso. Diciamo così: se Michael Jordan avesse pensato che non avendo un gran tiro da fuori e non essendo un gran passatore avrebbe dovuto con senso di responsabilità capire come poteva essere utile alla sua squadra solo con schiacciate e grandi giocate atletiche, e non avesse sentito alcune sue mancanze tecniche come problemi, probabilmente non molti oggi avrebbero poi così tanti motivi per ricordarsi di lui.

ci credo fortemente e una cosa che ho visto fare […] a Heynen lui non sto troppo sui difetti sennò diventa un problema e lui non vuole fare diventare un difetto un problema

Va bene ma questo è un altro discorso ancora. Diciamo che possiamo definirla una questione di strategia dell’insegnamento più che di tecnica dell’insegnamento. E’ la risposta alla domanda se, quando, e in che modo devo far riflettere un atleta sui suoi problemi o difficoltà, o cose che non sa fare. Se io non so l’Inglese, posso anche decidere di non pensarci mai e di non iniziare a studiarlo, solo che se a un certo punto qualcuno mi parla in quella lingua io non sarò in grado di comunicare. Certo fino a quel momento sarò stato benissimo, non mi sarò sentito male per non sapere l’Inglese. Però può succedere che quella unica situazione è la più importante della mia vita oppure può essere che avrò sempre un interprete con me… Poi diciamo che qui entra in gioco la differenza, abbastanza importante a mio modo di vedere, tra allenatore “gestore” e allenatore “sviluppatore”. Non tutti, anzi direi molto pochi, possono permettersi di essere solo gestori. Al massimo livello, quando gli atleti sono già al massimo livello, può essere una strategia efficace. Tra l’altro Heynen, citato dallo stesso Mazzanti fa una cosa che forse può sfuggire ma che secondo me può essere importante: fa tantissimi giochi al di fuori del lavoro tecnico in cui credo cerchi di ottenere dei miglioramenti proprio sui difetti che nota nei suoi giocatori.

le squadre vanno in difficoltà non quando le tocchi sul loro punto debole, ma quando le metti in crisi sul loro punto forte

Questo è un altro discorso ancora. Ma è un affermazione alquanto ardita. Credo sia una questione di bilanciamento. Infatti se un punto forte è davvero forte allora è molto più difficile metterlo in difficoltà. Se il punto debole lo massacri, quella squadra ci va in crisi, in difficoltà, eccome. Tutti gli sport di situazione sono raffinati giochi strategici. Certo la sorpresa è sempre importante, e ad esempio può diventare tutto più semplice se si dispone di caratteristiche particolari per mettere in crisi quel punto forte e gli avversari non sono abituati a fronteggiare quel tipo di difficoltà. Ma i giochi sono tutti così, da sempre. Le marcatura di Gentile su Zico e Maradona nel Mundial ’82 denotano che già Bearzot conoscesse queste finezze…

non esiste la pallavolo dei giovani e la pallavolo dei grandi, ci possiamo muovere già come fanno i grandi, poi lo faremo a nostro modo, ma ci muoviamo come fanno i grandi

Qui secondo me bisogna stare davvero attenti. Se una cosa la facciamo in un modo diverso (cioè se si fa in un proprio modo) non è più la stessa. Quindi sì: esistono pallavolo dei giovani e dei grandi. Si può anche intuire vagamente il senso di questa affermazione ma se non si fanno le giuste distinzioni su che cosa è e deve essere simile, e su che cosa è e deve essere diverso, il contributo per i giovani allenatori rischia di portare confusione e possibili fraintendimenti.

le due parole che ti permettono di rimbalzare tra conosci e riconosci sono pensa e senti, pensalo su di te quel gesto e poi sentilo nel contesto di gioco

Ancora: tutto ruota attorno a cosa si intende per pensa e senti: cosa significa esattamente “pensalo su di te quel gesto”? Quali operazioni fisiche e mentali deve fare l’atleta? Se non riusciamo a dare degli esempi concreti e dei contesti in cui queste distinzioni manifestano una certa utilità la teoria mi sembra molto vuota e farraginosa, e anzi può indurre secondo me a molti errori.

Bibliografia

Button, Chris, Morven Macleod, Ross Sanders, e Simon Coleman. 2003. «Examining Movement Variability in the Basketball Free-Throw Action at Different Skill Levels». Research Quarterly for Exercise and Sport 74(3):257–69. doi: 10.1080/02701367.2003.10609090.

Ranganathan, Rajiv, e Karl M. Newell. 2010. «Emergent Flexibility in Motor Learning». Experimental Brain Research 202(4):755–64. doi: 10.1007/s00221-010-2177-7.

Wulf, Gabriele. 2013. «Attentional Focus and Motor Learning: A Review of 15 Years». International Review of Sport and Exercise Psychology 6(1):77–104. doi: 10.1080/1750984X.2012.723728.

Masters, Rich, e Jon Maxwell. 2008. «The Theory of Reinvestment». International Review of Sport and Exercise Psychology 1(2):160–83. doi: 10.1080/17509840802287218.

Gabbett, Tim, e Rich Masters. 2011. «Challenges and Solutions When Applying Implicit Motor Learning Theory in a High Performance Sport Environment: Examples from Rugby League». International Journal of Sports Science & Coaching 6(4):567–75. doi: 10.1260/1747-9541.6.4.567.

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