Davide Mazzanti è un grande tecnico. Ed è anche un grande innovatore. Coraggioso nel portare avanti alcune idee innovative, quasi rivoluzionarie. Idee che sicuramente non è semplice portare avanti in contesti tipicamente abbastanza rigidi (non fosse altro che per le dimensioni) quali quelli federali. Dalla sua esortazione alle atlete di “stupirlo”, alla concessione di grande autonomia, all’idea di abbandonare dei concetti troppo rigidi e stereotipati dei modelli tecnici, alla battaglia contro (era ora) la frase terribile di molti tecnici “a me piace così”.
In questo periodo di lockdown ha indossato i panni dell’esperto in apprendimento motorio e secondo me i suoi interventi vanno un po’ limati e integrati. Nei suoi discorsi ci sono tante cose buone mescolate ad altre secondo me discutibili. E per chi vuole imparare può essere un problema. Vuoi per il carisma meritato con i risultati sportivi, vuoi per le cose buone dette, che sfatano giustamente alcuni luoghi comuni, le inesattezze passano inosservate. Ho sentito molti tecnici anche di buon livello lodare appassionatamente questi interventi del CT per la semplicità con cui affronta le questioni. Ecco a volte la semplicità è eccessiva e porta a errori grossolani.
In questo articolo cerco di aiutare il CT nazionale portando i suoi discorsi alla letteratura ad oggi diponibile sull’apprendimento motorio. Apprezzo in generale il voler essere innovativi e anche la cosiddetta contaminazione tra discipline, facendo però attenzione a non inventare nuove categorie in ambiti in cui la scienza della disciplina si è già ampiamente espressa ma cercare semmai di discutere all’interno di quella certa categoria in base a nuovi dati emersi. In altre parole se vogliamo costruire qualcosa di culturalmente valido credo sia meglio partire da quello che c’è, ed eventualmente negarlo, piuttosto che inventare nuove categorie senza metterle in relazione con le vecchie, perché in questo modo tutto sembra rimanere valido e la scelta dei modelli diventa arbitraria.
Di seguito ho raccolto alcune delle affermazioni che mi hanno indotto delle riflessioni:
noi abbiamo scomposto ad esempio il gesto dell’attacco e ad esempio c’è chi rincorre in accelerazione e chi rincorre invece in modo abbastanza lineare e quindi senza creare un’accelerazione, chi muove le braccia in modo simmetrico o asimmetrico durante la rincorsa…
https://youtu.be/mqFFksOUvnQ?t=400
Qui faccio una considerazione sul metodo seguito per la scelta dei modelli. Come modello di salto va preso qualcuno che salta tanto e che contemporaneamente schiaccia bene. Faccio fatica a pensare che con una rincorsa lineare, senza produrre accelerazione, questo possa accadere. Sembra che abbia scelto i modelli in funzione del fatto che semplicemente esistono e non in funzione della loro efficacia in quella particolare fase del movimento o secondo quel particolare criterio. Voglio dire che il fatto che ci siano tanti modelli (per esempio del salto in attacco) non necessariamente vuol dire che siano buoni modelli. Se una giocatrice di 2 metri utilizza un certo modello e salta pochissimo forse schiaccia bene non grazie a quel modello ma nonostante quel modello di salto. Nel complesso, con certe caratteristiche antropometriche, saltare poco può non essere un grande problema al fine di schiacciare ma non per questo ha senso inserire un salto inefficace tra i possibili modelli. Potrebbe essere che con una rincorsa migliore, la nostra giocatrice di 2 metri invece di essere una buona attaccante a livello internazionale (che credo sia il criterio adottato) diventi una delle migliori del mondo! Anche perché, ragionando in questo modo, visto che di grandissimi attaccanti con lo stacco invertito ce ne sono stati tanti, allora bisognerebbe considerare di insegnare anche quel modello ai nostri giovani.
se moltiplichi arrivi a più di 500 combinazioni possibili
https://youtu.be/mqFFksOUvnQ?t=470
Non credo abbia molto senso fare la moltiplicazione semplice dei modelli parziali (rincorsa, braccia nello slancio, inversione, ecc…) per identificare il numero di modelli utili per l’attacco. Come ha detto anche lo stesso Mazzanti, infatti, se lo slancio delle braccia è in un certo modo, lo stacco ne è condizionato quindi alcuni modelli non sono più applicabili una volta che è scelto quel modello di slancio delle braccia. I modelli funzionali totali sono probabilmente molto meno di 500, ragionando in questi termini.
Ad esempio a noi interessa che l’impulso a terra sia il più rapido possibile, cioè quindi l’impulso quando vai a staccare sia il più rapido, quello lì è fondamentale per convertire, il più rapido dipende dalle caratteristiche di ogni atleta, quindi ci sarà chi lo fa in un modo chi lo fa in un altro
https://youtu.be/mqFFksOUvnQ?t=508
Cosa significa “l’impulso deve essere il più rapido possibile”, aggiungendo poi che dipende dalle caratteristiche di quella atleta? O l’impulso deve essere più rapido possibile e allora non è più rispettato il principio di individualizzare il movimento in base a caratteristiche neuro-muscolari, articolari, antropometriche o se invece vale individualizzare più rapido possibile rispetto a cosa? In quest’ultimo caso si potrebbe solo dire della giusta rapidità in base alle sue caratteristiche individuali
Io ho una bambina dico: “senti questo gesto rispetto a questo, qual è quello che senti meglio?” “Questo.” “E se invece ti faccio oscillare le braccia così come lo senti?” “Quindi se devi fare uno stacco più rapido tu cosa fai?” “Faccio questa cosa qua”. La consapevolezza di avere questa gamma di scelta fa sì che aumenta il livello di coordinazione
https://youtu.be/mqFFksOUvnQ?t=538
Non corrisponde affatto alla mia esperienza. Nella mia esperienza se chiedi a una bambina quale gesto sente meglio lei sceglierà quello a cui è più abituata e in qualche maniera procura il risultato, risolve il problema, non credo proprio che scelga quello più vicino al modello ideale né al modello ideale per lei. Dipende probabilmente da molti fattori: dall’interazione dei pattern di movimento che ha a disposizione in quel momento (intrinsic dynamics) con il compito richiesto, da una serie di vincoli fisici, ma anche psicologici e se proprio vogliamo esagerare anche culturali e socio-ambientali (ad esempio la paura di fare brutta figura in certi contesti sociali gioca un ruolo importantissimo nel percorso di apprendimento dei giovani; i più sfrontati sembrano più dotati in certe fasi perchè “osano” molto di più)
Ci sono persone che in base alla traiettoria […] fanno una tecnica diversa, quindi adattano la tecnica a quel tipo di palla […], nessuno gliel’ha insegnato, sono loro che con la loro coordinazione, il loro talento dicono ok […], secondo me il nostro mestiere deve essere quello di rendere consapevole quella cosa che loro fanno indipendentemente che glielo insegno o meno, ma se tu lo rendi consapevolee, fai sì che quel percorso neurale che lui sceglie, diventi consapevole e quindi l’attività elettrica in quella rete neurale aumenta e quindi vuol dire che, a livello muscolare hai un’attivazione diversa […], già solo il fatto che tu hai un talento e rendi quel talento più consapevole di fare quel gesto, aldilà che sia ottimale o meno, comunque lo rendi più coordinato […]
https://youtu.be/mqFFksOUvnQ?t=692
Qui si afferma che il fatto di rendere un’atleta consapevole di quello che fa, della sua tecnica, lo renda più coordinato. Anche aldilà del fatto che questa tecnica sia ottimale o meno. Non riesco a capire da dove provengano queste idee. Non credo dall’esperienza sul campo, certamente non dalla mia, e non mi risulta da studi scientifici. In fondo lo stesso Mazzanti dice (vedi citazione immediatamente sotto) che i talenti non sanno quello che fanno. E nella letteratura scientifica ormai sono diverse le ricerche che suggeriscono piuttosto il contrario: essere consapevoli del movimento disturba l’automatismo e rende i movimenti meno efficaci (Masters e Maxwell 2008). Poi sembra che le reti neurali che governano l’azione e quelle che governano la consapevolezza siano differenti, come per esempio per i noti “dorsal stream” e “ventral stream” (Goodale 2011) per cui mi risulta difficile capire come la consapevolezza possa aumentare l’attività della rete neurale che governa il movimento
I grandi talenti italiani che ho intervistato non riescono a dare un nome alle cose che fanno, cioè se chiedo al mio miglior ricevitore di dirmi quali sono le cose importanti per lei, lei mi racconta quello che le hanno insegnato, non quello che lei sente, cioè non riesce a dare un nome consapevole a quello che secondo me veramente fa in campo. Mi dicono: “lo faccio e basta, non mi star lì a dire com’è come non è che faccio questa cosa”
https://youtu.be/mqFFksOUvnQ?t=137
La domanda sorge spontanea: ma se i talenti hanno imparato così, e quello che “sanno” a livello consapevole sono cose imparate a memoria dagli allenatori ma scollegate dalla realtà, perché mai dovremmo allenare le nostre atlete puntando sulla consapevolezza di quello che fanno?
Bibliografia
Masters, Rich, e Jon Maxwell. 2008. «The Theory of Reinvestment». International Review of Sport and Exercise Psychology 1(2):160–83. doi: 10.1080/17509840802287218.
Goodale, Melvyn A. 2011. «Transforming Vision into Action». Vision Research 51(13):1567–87. doi: 10.1016/j.visres.2010.07.027.
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